Una settimana da Immuni

Chiara Galeazzi
25 min readAug 18, 2020

Ovvero, cosa succede quando arriva una notifica di possibile contagio

Io e il Coronavirus, giovedì 9 luglio

Premessa

Questa è una storia che finisce bene. Lo dico prima perché viviamo un periodo storico in cui si discute molto su quali siano i temi su cui si può scherzare, e se c’è una certezza che nessun post lungo su Medium può scalfire è che sulla salute non si scherza. Quindi sappiate che io e tutte le persone coinvolte in questo racconto stiamo bene. O almeno stavamo bene al tempo dei fatti, se ora stanno male io non c’entro.

Questo è un racconto informativo per capire come muoversi quando succede una cosa come quella capitata a me. Solo che il mio imprinting professionale l’ho avuto da Vice, per cui le informazioni dovete cercarvele da soli in un inferno di aneddoti personali. Io sono Caronte, voi siete Dante. Virgilio è in isolamento domiciliare.

Antefatto

Io vivo a Milano. A fine giugno stavo concludendo il giro delle persone che non rivedevo da prima del lockdown, riabituandomi alla loro tridimensionalità. Tutti abbiamo mascherine, gel mani, stiamo in spazi all’aperto, molti si vantano dei loro sierologici negativi facendo a gara a chi lo ha pagato meno — un nuovo modo di essere cafoni. Per lavoro e per affetto stabile frequento Roma e luglio dal mio calendario è un mese molto romano. Il lavoro romano è su un set televisivo, per questa ragione ho dovuto fare un test sierologico prima di salire su un sanificatissimo Frecciarossa.

Il percepito fuori dalla Lombardia dei lombardi è peggiorato drasticamente: se prima eravamo degli stronzi, ora siamo degli stronzi infetti. Lo penso anche io. Sono terrorizzata da questo sierologico, anche se non ho avuto a che fare personalmente con malati di Covid-19 (o di Coronavirus? Covid è maschile o femminile? Chiedo a qualcuno del Post di correggermi). Gli amici romani che hanno fatto il sierologico hanno avuto il risultato in poche ore, io ne devo aspettare 72 a causa di una sanità lombarda forse ingolfata, forse solo lenta, e di un weekend in mezzo che non aiuta. Il bello è che la trepidante attesa di questo risultato negativo è stata totalmente inutile.

Ho scaricato Immuni perché ho senso civico e un fidanzato rompicoglioni. È attivo sul mio cellulare dal giorno 2 di messa online — il giorno 1 ero su TikTok e me la sono persa.

Domenica 5 luglio

Scendo a Roma per la prima tornata di set, il programma è di tornare a Milano giovedì 9 luglio e tornare a Roma domenica 12 per fermarmi fino a fine mese. Preparo un trolley piccolo, butto l’umido, per il resto lascio casa così com’è, direi selvaggia, tanto torno presto. Vado a stare dal mio fidanzato che ho già rivisto dopo il lockdown, quello invece lo abbiamo passato separati. C’è sempre un certo entusiasmo quando ci vediamo, ci diamo le confidenze di due congiunti che non sono parenti.

Lunedì 6 luglio

Mi vesto per andare sul set, faccio colazione mentre fisso Instagram intensamente. Due giorni prima avevo impostato il limite di un’ora per l’uso dell’app, quindi mi sono data 10 minuti per vedere su quale aspetto del femminismo sto fallendo e poi scollegarmi. Mentre salto quattro stories pubblicitarie, mi appare una notifica di Apple:

Immuni ha attivato le notifiche
OK

Penso immediatamente che sia un’applicazione stupida: ho attivato le notifiche appena l’ho scaricata, vuoi dire che fino adesso non ha funzionato? E poi dovremmo fidarci della tecnologia, figurati! Schiaccio “Ok” ancora ridacchiando, e come il gioco delle tre carte, dove a perdere sono io, si chiude Instagram e si apre l’applicazione Immuni. Nella parte alta c’è un banner rosso:

Rilevata esposizione a rischio con persona COVID-19 positiva — scopri subito cosa fare

Strattono il fidanzato pronunciando svariate volte la parola cazzo, nelle varianti “che cazzo” “cosa cazzo” “oh cazzo”. La sua reazione è molto simile alla mia, ma mi sprona a schiacciare “Scopri subito che cosa fare” per capire qualcosa di più. Il primo effetto del panico per me è la perdita totale di forza nelle braccia, quindi devo concentrarmi tantissimo per poter schiacciare sul banner. Si apre una nuova schermata, altra intestazione rossa:

ESPOSIZIONE A RISCHIO — Immuni ha rilevato che il giorno 27/06/20 sei stato vicino a un utente COVID-19 positivo

Sotto, varie istruzione su come comunicare la cosa al proprio medico o all’ASL.

19 minuti di MA CHE CAZZO tra una schermata e l’altra

Ci sono tante cose che detesto nella vita, tra queste due in particolare: 1 — parlare con i medici, 2 — il locale dove sono andata sabato 27 giugno 2020.
Cerco di spiegare come funziona Immuni peggio che posso: Immuni registra la vicinanza con qualcun altro che ha Immuni solo se questa avviene entro i 2 metri di distanza e per più di 15 minuti. Se risulti positivo, dici all’ASL di scriverlo su Immuni e lei manda la notifica di cui sopra a tutti quelli che sono stati a quella distanza per quel tempo. C’è una questione di codici autogeneranti che evito di spiegarvi per non farvi capire che non so di cosa stia parlando.
Risalendo a cosa ho fatto sabato 27 giugno, l’unico posto in cui sono stata più di 15 minuti con altre persone è stato all’aperitivo in quel cazzo di locale. Non voglio fare nomi, dico solo che è un posto comodo rispetto a casa mia, abbastanza grande, dove non si possono prenotare i tavoli (né durante la pandemia, né al tuo compleanno), che fa pagare il vino 5 euro e 50 centesimi (5 euro il vino, 50 centesimi per la spocchia) e dove finisco per passare metà della serata contorta in posizioni innaturali per nascondermi da qualche persona che non voglio salutare. Però è anche il posto dove vado più spesso con questa mia amata amica che non vedevo da tanti mesi e che non ha né Covid né Immuni — mi conferma entrambe le cose appena le comunico della notifica, mentre si trova nel suo isolamento fiduciario essendo rientrata all’estero. Lei è l’unica persona con cui ho parlato in quell’aperitivo durato un paio d’ore, quindi resta la domanda che ancora adesso mi attanaglia e che non avrà mai risposta: chi è l’infame infetto?
Ovviamente in quel momento sono io a sentirmi infame, condannandomi già a una fine certa: vivo in Lombardia, sono uscita di casa, ho incontrato delle persone, per forza ho preso qualcosa, Milano è piena di superfici che non puoi fare a meno di toccare, Santo Cielo! L’altro pensiero che mi attanaglia è che “persona COVID-19 positiva” mi sembra un bruttissimo calco dall’inglese.

Con tutta la riluttanza che ho in corpo contatto il mio medico, un signore di 60 anni che ha così tanta fiducia nelle sue capacità da avere appesi fuori dallo studio i calendari dei viaggi a Lourdes.

L’assistente del mio medico

Gli spiego la situazione: ho ricevuto una notifica da Immuni, non so chi sia questa persona infetta, non sono a Milano, sto benissimo. Sento riflettere tantissimo dall’altra parte del telefono:
“Allora Chiara, aspetta che vado sulla pagina di Immuni. Allora [mugugna qualcosa in quel modo di chi legge velocissimo] ‘segnalazione positivo’. Allora segnalo.”
“NO SI FERMI NON SONO POSITIVA”.
Perdo rapidamente la fiducia nelle conoscenze tecnologiche del mio solitamente bravo medico, ma penso che nel campo degli esami diagnostici sappia il fatto suo. Gli faccio notare che ho un sierologico negativo appena uscito dal forno, varrà pure qualcosa? Dopo un “Mah” così lungo da aver risvegliato anche Ippocrate, mi risponde con uno scientificissimo “Credo”.
“Comunque ora dovrebbe chiamarti l’ASL di Milano”.
“Ma io sono a Roma”.
“Allora si parleranno tra regioni”.
Metto giù e un paio di minuti dopo ricevo una chiamata dall’ASL di Milano. Dopo convenevoli e dati personali, mi spiega molto chiaramente cosa succederà da adesso in poi:
“Dopo la notifica di Immuni bisognerebbe stare in casa 14 giorni dalla data riportata sulla notifica, che nel suo caso è arrivata molto tardi, quindi dovrà stare isolata solo fino a sabato. A quel punto farà un tampone per vedere se c’è stato effettivamente il contagio.”
Da pessima giocatrice a carte, butto di nuovo al centro del tavolo la carta del sierologico negativo, pensando valga qualcosa.
“No, il test sierologico non vale, è stato fatto dopo troppo poco tempo dopo il possibile contagio. Il sierologico può segnalare un contagio se c’è stato circa 30 giorni prima.”
Ricordatevi questa frase ogni volta che qualcuno pensa sia geniale fare un sierologico.
“Posso fare il tampone, anche privatamente, oggi?”
“No. Devono passare per forza 14 giorni dal possibile contagio, altrimenti potrebbe produrre un falso negativo, e deve farlo per forza passando dall’ASL di modo che possiamo comunicarlo alle autorità.”
“Ok, io però sono a Roma, posso tornare a Milano?”
“Può prendere una macchina da sola e non fermarsi mai in luoghi con altre persone?”
“No”
“Allora no.”
Sono troppi no per un lunedì mattina. Comunicati i dati del domicilio romano, chiudo la chiamata con melodrammatico trasporto.

La cosa che ho visto di più da bambina dopo L’albero azzurro

Chi è nato a Milano da una famiglia milanese (saluto tutti e 7), quando sente nominare un ente pubblico associato a Roma comincia a pensar male. Nemmeno mesi di gestione criminale della sanità lombarda riescono a disinnescare questo automatismo, il mio primo pensiero è “Figurati se questi mi chiamano! Figurati se faccio il tampone prima di fine mese! Si perderanno tutto! Con i loro cappuccini alle 11 del mattino!” A metà invettiva mi chiama l’ASL di Roma. In questo momento interviene il fidanzato, che ha una serie di domande legittime rispetto alla sua posizione di proprietario della casa dove una persona che forse è stata contagiata con il Coronavirus sta rilasciando droplet inveendo contro chiunque. Se in un giorno normale questo suo interventismo mi sarebbe sembrato legittimo, oggi è una insopportabile mania di protagonismo di qualcuno che non si rende conto del dramma di un essere umano che scopre la precarietà della vita attraverso un’applicazione che le annuncia di aver incontrato il male del secolo. Però lo accontento e rispondo al telefono in vivavoce. Convenevoli, dati. La dottoressa dall’altro capo della linea sembra una mia coetanea, è gentile e preparata.
“La notifica riporta come data 27/06, che era un sabato, quindi direi fissiamo il tampone questo sabato. Vuole venire al drive-in o facciamo venire l’infermiere a casa? Il drive-in è un po’ lontano dal suo domicilio.”
Non so voi, ma non mi piace pensare all’automobile come luogo in cui si svolgono procedure mediche. Sarà la moquette, l’Arbre Magique, le bottigliette aperte e mai finite, le custodie dei CD rotti… È un posto troppo conturbante.
“Meglio l’infermiere a casa.”
“Perfetto, le comunicherà l’orario direttamente l’infermiere sabato mattina, il risultato arriverà domenica.”
C’è un fidanzato che sta seguendo la conversazione e che vuole sapere delle cose, quindi chiedo “Sono a casa del mio fidanzato, cosa deve fare lui?”
“Lui niente, è un contatto di un contatto, non è prevista nessuna profilassi per lui. Ai conviventi diciamo di cercare di stare in stanze separate, limitare i contatti…”
Ci guardiamo colpevoli di essere troppo poveri per avere case grandi e di esserci smanacciati fino a un secondo prima di ricevere la notifica. Vado avanti con le domande.
“Quindi io fino al tampone sono in isolamento…”
“Volontario”, questo lo aggiunge il fidanzato da lontano, ma la dottoressa al telefono lo sente benissimo.
“Non è volontario. È obbligatorio. Da quando viene avvisata l’ASL scatta l’isolamento obbligatorio.”
Sono passate circa 2 ore dalla ricezione della notifica e per quanto fossi ben conscia di dover stare per i fatti miei fino al tampone, immaginavo di poter lasciare casa per poter fare la spesa o qualcosa di simile, certamente più bardata del solito, evitante come sempre. Credevo di poter scendere almeno una volta tra la gente e guardarla negli occhi mentre mi allontano da loro con gli occhi benevoli di chi ha fatto un gesto per il bene della comunità, gli stessi di chi fa beneficienza per poterlo dire in giro, ma in fondo contano le ragioni se il risultato è il bene della gente? Signora mia, io sono qui a ricordarle che non tutti i giovani sono pessimi come crede, e poi io non sono neanche così giovane. Come dice? Dimostro meno anni di quelli che ho? Lo riesce a capire anche se indosso la mascherina? Grazie mille, ora però davanti alla mia storia capirà bene che non posso farla passare davanti a me anche se ha comprato solo quattro prugne e dello yogurt Activia, tra l’altro mi sembra chiaro dai suoi acquisti che non ha nessuna impellenza.

Ringrazio la dottoressa dell’ASL di Roma e penso a tutte le persone a cui devo raccontare questa faccenda della notifica: i miei genitori, i colleghi che avrei dovuto incontrare nel pomeriggio, le persone con cui avevo degli appuntamenti nei giorni in cui sarei dovuta tornare a Milano. Penso che invece di tornare a casa mia giovedì per poi tornare a Roma quattro giorni dopo, resterò qua per tre settimane con quattro mutande.

Il trolley con cui sono partita per Roma

Poi penso che se il tampone dovesse uscire positivo dovrei dirlo ad almeno una trentina di persone, alcune non ho neanche idea di come contattarle. Penso alle scene dei telefilm in cui un personaggio scopre di avere una malattia venerea e deve avvisare tutti suoi partner, che in quei casi sono sempre tantissimi, e di solito questo viaggio tra ex finisce con il personaggio che si fidanza con una brava persona. Nel mio caso poteva finire in tragedia. Questo è un minuto di totale scoramento, in cui guardo il mio fidanzato e con gli occhi gonfi dico “Capisci cosa è successo?”. Ripenso subito a questa frase: da quando c’è Immuni nessuno sembra averla scaricata, per non parlare di aver ricevuto una notifica di avvenuto contagio. E ora sono in isolamento con quattro mutande e dovrò fare un tampone perché sono stata in un locale che detesto. “Capisci cosa mi è successo?”, stavolta ridendo.

Tipo così, ma in casa e con lo smartphone in mano.

Il fidanzato si barda di qualsiasi strato protettivo abbia in casa, ci salutiamo come se avessimo scoperto improvvisamente di essere parenti. Resto sola in casa e spendo subito 50 euro in prodotti per la pulizia su Amazon Prime per togliere mesi di vita da scapolo da casa del fidanzato, poi circa 80 euro in cosmesi varia su siti di fiducia, faccio una spesa sul sito di Eataly su cui preferisco non soffermarmi troppo e, nel tentativo di ricostruire il clima del mio lockdown in cui una disciplina mai avuta nella vita mi ha permesso di mettere su massa muscolare, acquisto un tappetino da palestra su Amazon. La consegna sarà venerdì, in tempo per fare due squat durante il tampone.
I consumi mi calmano abbastanza da iniziare il giro delle telefonate e dei messaggi. Il piano è di contattare personalmente le persone più intime e che so avere un rapporto equilibrato con un’eventuale malattia (amici, se non siete stati avvisati di questa storia nel momento in cui stava accadendo, ora sapete cosa penso di voi e del vostro rapporto con la salute). Tutti mi chiedono due cose:

1 — hai sintomi?
2 — Perché hai scaricato immuni?

Primo, non ho sintomi reali. Immagino molte cose, per lo più percepisco muco dove non c’è. Ma sto benissimo.
Secondo, il motivo per cui ho scaricato Immuni è chiaro: perché sono un’ottima cittadina. Lascio il posto a sedere agli anziani sui mezzi, bevo l’acqua del rubinetto, faccio solo lavatrici a 30 gradi, dico frasi tipo “Non voglio problemi, sono disposta anche a pagare più tasse”. Ovviamente non pensavo che Immuni facesse davvero qualcosa. Pensavo stesse lì a tutelare noi bravi cittadini à la page, come medaglia al valore civile buttata lì tra l’app del New Yorker e quella per la meditazione mindful, non che a una certa avrebbe funzionato. La domanda non è perché io l’ho scaricata, bensì come è possibile che una persona con l’app Immuni si sia potuta prendere il Covid-19. Una roba che si prendono gli irresponsabili, i lascivi, quelli che fanno uscire il naso dalla mascherina, Santo Cielo! Se neanche noi che abbiamo fatto l’enorme sforzo di installare un’applicazione siamo al sicuro, allora chi lo è?

Ci facciamo parlare dietro come Gianni

Mentre passo Swiffer Duster su tutte le superfici di una casa molto impolverata, mi fermo a ragionare: sono a Roma perché dovevo andare per tre giorni su un set, sospendendo per quel periodo tutti gli altri lavori. Per tre giorni quindi sono assente da qualsiasi lavoro con la giustificazione più incontestabile e spaventosa che ci sia. Vado immediatamente a fare un pisolino. Mi sveglio dopo un’ora e mezza pensando che la stanchezza è un sintomo del Covid.
Alle 18 escono i dati dei contagi: i nuovi infetti sono 208, tra questi c’è pure lo stronzo che forse mi ha contagiato. Dopo cena bevo limoncello e mangio Pan di Stelle al grido di “Dopo quello che mi è successo!”.

Vorrei una sigaretta, ma ho finito il tabacco. E non posso uscire a comprarlo.

Martedì 7 luglio

Annuncio della notifica a una seconda tranche di persone, meno intime ma che devono comunque sapere. Tutte persone che non vedo da mesi e che quindi prendono la notizia con una certa leggerezza. Quelle del primo giro sono meno leggere, mi chiedono anche oggi se ho sintomi. Non ne ho, a meno che la voglia di sbattere a terra il telefono ogni volta che qualcuno mi chiede se ho sintomi sia un sintomo.
Io continuo a pulire casa e pulire me con i prodotti che nel frattempo mi sono arrivati. Li ritiro come fossero radioattivi: chiedo di lasciarli fuori dalla porta e saluto con la voce più grata che ho da lontano chi me li ha portati, sapendo che dietro la mia enorme mascherina non possono vedere quanto sorrido piena di gratitudine e senso di colpa.
Ricevo una chiamata dalla stessa dottoressa dell’ASL di Milano di ieri, mi chiede se il tampone è stato fissato, come sto, bene, grazie, arrivederci. Penso tantissimo a sabato 27 giugno e a quell’aperitivo, a chi potrebbe essere la merda che mi ha infilato in sto casino. Penso che forse è il caso di chiamare quel locale per avvisare di quello che è successo. Mi sembra un atto dovuto, magari possono mettersi in sicurezza loro, allontanare i tavoli, togliere quei ridicoli 50 centesimi dal prezzo del vino. Cerco il numero e chiamo spiegando della notifica e del fatto che l’unico posto in cui sono stata quel giorno è il loro locale.
“No, non sappiamo nulla, non abbiamo ricevuto nessuna chiamata, ciao.” Buttano giù.
A Milano molti locali hanno chiuso, in alcuni di questi sono successe alcune cose che hanno cambiato la mia vita. Invece questo è solo un posto di merda ancora aperto che mi sbatte il telefono in faccia all’annuncio che hanno ospitato una persona infetta. Il ricordo più bello che ho di questo locale è quando una cameriera non fece pagare a me e un’amica due sbagliati sussurrando “Andassero affanculo” rivolta al bancone. C’andassero davvero.

Un suggerimento per capire almeno dove si trova quel locale

Ricevo foto dal set dove sarei dovuta andare e dove stanno girando delle cose meravigliose. Penso molto ai miei vestiti e alle mie piante. Faccio anche tantissimi pisolini, poi mi sveglio pensando che la stanchezza è un sintomo del Covid.
Il moroso porta a casa del mirto che bevo dopocena al grido di “Dopo quello che mi è successo!”. Cominciamo un puzzle enorme, un’attività che non mi fa pensare né al covid, né a tutte le persone che potrei aver eventualmente infettato. Il pensiero mi torna ogni volta che mi giro verso il moroso, a cui avrò anche pulito casa, ma forse l’ho pure infettato. Se ci guardiamo per più di 30 secondi io mi sento una persona crudele e lui mi chiede di misurarmi la febbre.

Non ho la febbre.

Mercoledì 8 luglio

Mi chiama un numero con prefisso 02, è l’ASL di Milano, ma non è la stessa persona con cui ho parlato finora. Mi dicono che hanno saputo della notifica di Immuni e che bisogna fissare il tampone. Gli dico che ho già fatto tutto, che sono a Roma e che ho fissato il tampone qui per sabato.
“Come è a Roma? Come ha già fissato il tampone?”
Spiego la storia da capo. Intuisco qualche intoppo nella sanità milanese, che comunque mi sembrava già in difficoltà da qualche mese.
“Ok, scusi il disturbo, segno che è tutto a posto”.

Arriva la spesa di Eataly che comprende un filone di pane da quasi un chilo. Io acquisto sempre un filone di pane enorme che taglio a fette, metto nei Tupperware e infilo in freezer. Nel momento in cui mi trovo questo stupendo e carissimo pane davanti mi rendo conto che non sono a casa mia, qui non ci sono Tupperware e nel freezer non c’è posto. Provo una nostalgia di casa che pensavo di aver attutito con l’ordine di maschere coreane, ma i Tupperware hanno riaperto tutto. Mangio immediatamente un quarto di quel filone e vado a fare un pisolino.

Mi manchi, mi manchi, posso far finta di non avere Immuni, ma mi manchi

Mentre sto per addormentarmi mi arriva una telefonata da Numero Sconosciuto. L’ultimo numero sconosciuto che mi ha chiamata era una celebrità che avevo intervistato qualche settimana prima. Penso che magari è lui che vuole lamentarsi dell’intervista e mi sale già la tachicardia. Questo fa circolare il sangue più veloce e inizio a sentirmi calda. Penso di avere il Covid. Mi siedo e rispondo:
“Chiara Galeazzi?”
“Sì”
“È la Polizia di Milano”
Quasi svengo. Ripenso ad ogni reato che potrei aver fatto, ai reati che possono aver fatto le persone che conosco, intanto alzo di un’ottava la mia tonalità e di molti decibel il volume nel tentativo di sembrare innocente come la preadolescente di un cartone giapponese.
BUONGIORNO SALVE!” Saluto due volte. Dall’altra parte la voce è giovane e tranquilla, ma per me è solo una persona armata che in questo momento potrebbe essere sotto casa mia. Cazzo, sicuramente è sotto casa mia. E io come faccio ad aprirgli che sono a Roma? Oddio, ma perché vuole entrare a casa mia? Che cosa ho fatto?
“La chiamavo per il controllo dell’isolamento per il Covid.”
GRAZIE MILLE MA IO SONO A ROMA.”
“Ah, è domiciliata a Roma?”
SI SCUSATEMI TANTO, SE SIETE SOTTO CASA MIA NON POSSO APRIRVI
“Ma no signorina, è solo un controllo telefonico”, il poliziotto ridacchia.
Mi tranquillizzo, mentre penso che a questo punto potrei essere ovunque e forse un controllo in casa avrebbe più senso, ma non mi sembra il caso di suggerire alla polizia come essere più vigilante. Mi chiede il domicilio romano, glielo dico, mi annuncia che mi farà qualche domanda.
“È in contatto con l’ASL di Roma?”
“Sì”.
“Ha fissato il tampone?”
“Sì”.
“Lei fa parte del servizio sanitario?”
“No”.
Il poliziotto ridacchia di nuovo: “Eh, lei fa la cantante…”

Ora, non posso dire di avere una brutta voce. Ho un forte accento milanese, ma per il resto è una voce carina. Qualcuno mi ha anche detto che quando canto sono intonata. Ma una cosa è certa: durante la telefonata non ho cantato. Magari questo poliziotto ha un orecchio particolarmente fino, ma chi sono io per contraddire una persona armata che mi sta facendo un complimento?
“Guardi, in realtà no, non credo di avere il talento…”
“Ah no, mi scusi! Deve essere un caso di omonimia!”
Mi ha scambiata per Chiara Galiazzo. Vorrei dirvi che non è mai successo che qualcuno confondesse Galeazzi per Galiazzo, e invece è capitato. Oppure ho fatto un’esibizione pazzesca a Sanremo 2017 senza saperlo.

Forse dovrei rifarmi rossa.

Metà del filone di pane di Eataly è stato mangiato durante il corso della giornata.

Giovedì 9 luglio

Alle 8 del mattino avrei dovuto prendere un treno per tornare a Milano, sarei tornata a casa a fare altri lavori, a bagnare le piante, a caricare lavatrici. La sera poi sarei andata al compleanno di una delle mie più care amiche. Invece sono a Roma a pensare che forse le ho attaccato il Covid. E tanti auguri.
Al quarto giorno ricomincio a lavorare. Comunico ai colleghi che i lavori li farò da una casa non mia dove sono in isolamento obbligatorio per una notifica di Immuni.
A questo punto le persone che sanno della faccenda sono circa una quindicina. Di queste solo due mi hanno detto che ho fatto bene a installare l’applicazione e a stare a casa, che è la cosa giusta da fare. Le altre non hanno Immuni e la mia vicenda le ha ispirate a continuare a non averla. Questi commenti, in cui percepisco un tono di snobberia come loro fossero i fighi e io la babbazza, mi rendono la più grande sostenitrice dell’applicazione. Per quanto abbia ormai sviluppato una routine comica nel raccontare questa vicenda, decido sempre di concludere con un autoelogio: è una questione di responsabilità, lo faccio per i miei cari, dovremmo farlo tutti, e poi ci rimedi un tampone gratis fatto in casa.
“Hai ragione Chiara. Ma non la installo lo stesso”.
Nessuna persona ha avuto da ridire sul fatto che stia regalando i miei dati a “loro”, che mi seguono, che sanno dove vado. La verità è che vorrei tanto ci fosse una simile raccolta dati, così potrei risalire a chi cazzo è quel bastardo che mi ha cacciata in questa situazione. Io immagino sia un uomo di 36 anni con un lavoro in amministrazione, che cerca di conquistare le donne facendo vedere che sa suonare vari strumenti, ma tutti male; tra l’altro, non essersi applicato seriamente nello studiare uno strumento solo dimostra che non si vuole impegnare.

Oggi non ho tempo di fare il pisolino, quindi sono stanca, quindi penso di avere il Covid.
La sera costringo il moroso a guardare Temptation Island mentre facciamo il puzzle. Per tre ore circa non penso al Covid. Appena finisce ricomincio a pensarci. Questo è il quarto giorno in cui ci diciamo che domenica, appena mi arriva il risultato “sicuramente negativo” andiamo a Fregene a mangiare gli spaghetti con le vongole. Per ora posso solo finire l’altra metà del filone di pane di Eataly.

Io che leggo la notifica di Immuni

Venerdì 10 luglio

Al mattino ricevo una chiamata da un numero di Milano. È l’ASL, una voce diversa.
“Buongiorno Signora Galeazzi, la chiamo per fissare il tampone”.
Per la seconda volta l’ASL di Milano non sa che sono a Roma, che il tampone l’ho già fissato qui e che la devono smettere di chiamarmi. Mi arrabbio. Poi il piccolo leghista che dorme nel mio cervello sussurra, “E se quelli dell’ASL di Roma non avessero fissato nessun tampone e per questo non risulta da nessuna parte?” Chiedo alla persona dell’ASL di Milano di chiedere al medico dell’ASL Roma 2 di farsi confermare del tampone fissato per sabato. La voce diventa molto titubante:
“Veramente io sono di un call center legato all’ASL, fissiamo solo gli appuntamenti”.
Taglio corto, saluto e vado brevemente nel panico. Chiamo l’ASL di Roma, il numero che mi ha chiamato lunedì.
“Ciao Chiara! Come stai?”
Eccoli lì i romani, con la loro confidenza, i ciao e i come stai. PARLATECI DEL MIO TAMPONE.
“Sì, confermo che sabato mattina verrà l’infermiere a casa. Prima passa da *inserire nome di zona di Roma che non so dove sia* e poi viene da te.”
“E il risultato arriva domenica?”
“Sì, non posso mandarti il certificato perché non sarò in ufficio ma posso mandarti il risultato”.
Il piccolo leghista, di fronte a una persona di Roma disposta a lavorare la domenica, deve piegarsi. L’ospedale milanese in cui feci il sierologico ritardò il risultato di tre giorni perché in mezzo c’era il weekend, e su Wikipedia c’è scritto chiaramente che il weekend dura solo due giorni. Oltretutto ho ricevuto più chiamate confuse dall’ASL di Milano che dai miei genitori — anche loro molto lucidi nel dire di non voler scaricare Immuni.
Io ora non voglio dire che in cinque giorni di isolamento obbligatorio ho capito il disastro della sanità lombarda, perché l’avevo capito già prima. Chiamatemi perspicace.

Per infierire ulteriormente sull’omino della lega, dopo la trafila con l’ASL ricevo una chiamata da un numero con prefisso di Roma.
“Signora sono della AMA, servizio raccolta rifiuti. Sappiamo che è in isolamento, le volevo dire che se ha bisogno veniamo noi a ritirare a sua immondizia e a fare la differenziata”, detto tutto con quel modo di dire la zeta sorda di alcuni romani, facendola quasi sibilare, un suono che mi fa il solletico al cervello. Declino l’offerta, ma lo ringrazio con trasporto.
Quando lo racconto a un amico romano, la sua risposta è “DIGLI DI VENIRE SOTTO CASA MIA CHE NON RITIRANO LA SPAZZATURA DA DUE SETTIMANE!”.

Chi immagino fosse dall’altra parte del telefono

Arriva anche il tappetino che avevo ordinato lunedì. Lo uso per fare un video di yoga per l’ansia. Non serve a niente. Aggredisco il moroso che vuole raccontare al fratello la vicenda della notifica, con la giustificazione “Lo agiti per niente, finché non c’è il tampone non ha senso parlarne”. Lui arroga il diritto di dire ciò che gli pare a suo fratello, io mi arrogo il diritto dei fatti miei che si gestiscono come pare a me, senza minimamente considerare che la persona che ho davanti sta ospitando in casa sua una possibile persona infetta che ha sgocciolato droplet su tutti i cuscini della casa durante dei pisolini, quindi quei fatti miei sono parecchio anche fatti suoi. Facciamo puzzle in attesa del grande giorno. Dormo malissimo.

Sabato 11 luglio

Mi sveglio ripetutamente finché non decido alle 8 di alzarmi. Ipotizzo che l’infermiere arriverà intorno alle 10, e infatti alle 8.40, mentre sono sotto la doccia, l’infermiere arriva, come in un brutto porno a tema Coronavirus. Apre la porta il moroso, mentre io cerco di asciugarmi e vestimi contemporaneamente. Lo sento armeggiare, mi spiegherà poi che i due infermieri hanno chiesto una sedia per potersi cambiare fuori dall’appartamento. Preghiamo che nessun vicino di casa li veda e si allarmi. Quando sono pronti, suonano alla porta. Apro io stavolta, molto pulita e senza nessuna mascherina. L’infermiere è tutto bianco: camice bianco, mascherina bianca, retina bianca, tampone bianco in mano. Mi chiede di mettere la mascherina e mi dice che sta per fare un tampone orofaringeo, quindi passerà prima in gola poi nelle narici. Mi chiede di alzare la mascherina e di dire aaaaah.
“AaaaaaaaaGLORGH” Il tampone entra ed esce dalla gola in un fastidioso secondo, io rido perché ogni modo ingegnoso creato dall’uomo per dare fisicamente fastidio mi fa molto ridere — una ceretta all’interno coscia mi fa più ridere della maggior parte degli special su Netflix.
“Ora passo alle narici, potrebbe essere doloroso”. Con la stessa punta finita in gola entra nella narice destra, fino ad arrivare alla fronte e, ne sono certa, curvare all’indietro verso il cervello. Eventuale dolore (non pervenuto) viene completamente soppiantato dallo stupore di quanto sia profondo il naso. Stessa mossa per la narice sinistra e il tampone è fatto. Non è una pratica dolorosa. Vorrei strapparmi la faccia per grattarmi tutti i seni nasali, ma per il resto ok.
“Il risultato quindi arriverà domani?” Chiediamo in coro io e il moroso.
“Tra 24–48 ore”.
“Come 48 ore?”
“Dipende dalla questione dei bangla”.
La “questione dei bangla” a cui accenna il forbito infermiere è la notizia legata al Coronavirus che ha interessato l’Italia per tutta la settimana, forse addirittura più della mia notifica di Immuni: martedì 7 luglio è atterrato a Roma un volo da Dacca in cui il 13% dei passeggeri è risultato in seguito positivo al Covid-19. Da quel giorno sono uscite notizie su altri voli dal Bangladesh all’Italia in cui erano presenti persone infette, e così via finché a Roma non si decide di testare l’intera comunità bengalese. Tutta lo stesso giorno del mio tampone. Tutto sotto la direzione dell’ASL Roma 2, la stessa che ha seguito il mio tampone. Passo il pomeriggio sul sito di Getty Images per un lavoro e resto incantata nel guardare le file di persone della comunità bengalese in coda a fare quello che io avevo fatto qualche ora prima. Sabato 11 luglio 2020 a Roma vengono eseguiti circa due mila tamponi.

Io mentre faccio il tampone

Domenica 12 luglio

Vorrei dire di essermi svegliata a una certa ora ma non ho mai veramente dormito. Ogni suono del telefono è una possibile luce in fondo al tunnel, e io sono iscritta a moltissime newsletter che arrivano tutte nel weekend, certe anche alle 6 del mattino di domenica. Fanculo, Yoga with Adriene.

Cazzo ridi?

È ora di pranzo, c’è il sole e a Fregene c’è un posto dove mangi gli spaghetti con le vongole con i piedi nella sabbia. A volte la sabbia è anche nel piatto. Noi invece siamo a casa a maledire le mail e qualsiasi persona interessata alla mia condizione che decide di mandarmi un messaggio. Dopo pranzo ancora nessuna notizia. Chiamo il numero della dottoressa dell’ASL Roma 2, non risponde nessuno. Non trovo un altro numero da chiamare. Sono nervosissima e stanca, che ricordo essere sintomo di Covid. Mi invento un pensiero felice con cui tiro fino a sera: se il risultato fosse stato positivo, mi avrebbero avvisata immediatamente, invece se non mi dicono niente vuole dire che è negativo. A partire dalle 20 nessun suono del cellulare potrà mai portare il risultato del mio test, ripeto la frase “Se fosse stato positivo me l’avrebbe già detto” finché non mi addormento, amareggiata. Essere amareggiati è sintomo di Covid?

Lunedì 13 luglio

Alle 8 del mattino ho già il telefono in mano per chiamare l’ASL Roma 2, anche se immagino non ci sarà nessuno almeno fino alle 9.30, quindi svolgo tutte le attività mattutine con il telefono in mano fino alle 9.30, quando chiamo la dottoressa, con cui diciamo che ormai sono amica, o almeno vorrei visto che al momento conosco solo autori o copy/strategist/auanagana, tutta gente che non vorresti accanto in caso di apocalisse. Ma la sua voce è cambiata, non è una voce da lunedì mattina, sembra quella di un venerdì pomeriggio di una settimana che sembra non voler finire.
“Mi dispiace, ma abbiamo fatto 2000 tamponi sabato, purtroppo non abbiamo ancora i risultati di alcune persone che lo hanno fatto venerdì”.
Io sono pronta per andare su un set che mi sognavo da settimane, in particolare dopo l’ultima settimana. Invece penso a quante altre volte posso lavare i tre vestiti che mi sono portata dietro prima che si dissolvano nel cestello (inquinando tantissimo le fogne romane, grazie mille fast fashion).
“Posso provare a vedere se magari il tuo risultato è arrivato, ma non ti prometto niente… Ah no, c’è, è negativo.”
E allora addio dottoressa, chi ti vuole più sentire. Addio ASL, addio Polizia, addio acquisti online.

C’è una sensazione di purezza che accompagna il sapere di non avere il Covid che forse solo un bimbo appena nato può provare, se non fosse troppo impegnato a frignare. Non sono semplicemente sana, bensì la persona più sana che conosco, più di chiunque altro. Poi magari in una parte nascosta del mio corpo sto sviluppando un’infezione, un piccolo calcolo, un neo strano, ma chissenefrega: siamo nel 2020 ed è stato stabilito che salute è uguale ad assenza di Covid. Per questo appena metto piede fuori casa compro tabacco sapendo che, per la prima volta in quattro mesi, quel raspino che mi seguirà per le ore successive non è Covid.

Nei giorni successivi racconto questa storia a chiunque, e mentre qualcuno che mi incontra dal vivo è ancora spaventato all’idea che mi sia trovata nei pressi di un infetto, sono l’unica a poter dimostrare che non ha il Covid. La sensazione di essere una di quelle dee bambine del Nepal che non possono camminare e non devono andare a scuola perché sanno già tutto mi accompagna per circa due giorni, allo scadere dei quali ricordo che non ci vuole molto per prendere il coronavirus. A volte basta andare in un locale di merda e sedersi a due metri dalla persona sbagliata con l’applicazione giusta.

Selfie scattato lunedì 13 luglio

A qualche settimana da questa vicenda, il mio capo mi manda un link a un articolo di Open dove si annuncia che dal 13 luglio le persone che hanno ricevuto una notifica sono 23. Immagino che nella mia settimana siano state qualcuna in più, ma siamo comunque pochi. Pochi bravi cittadini che hanno messo la loro libertà in pausa per evitare che questo virus faccia i danni che abbiamo visto. Bravi noi. Dovrebbero darci una medaglia, applaudire per noi dai balconi.
Inoltre sapere come è andata la prima volta mi permetterà di vivere molto più serenamente la prossima volta in cui riceverò le notifiche da Immuni.

Quando le riattiverò.

Non è vero, sono ancora attive. Invece la mia medaglia dov’è?

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Chiara Galeazzi

Autrice tv e web Spassolini è il programma per Radio Raheem sulla comicità, Réclame il podcast sulla pubblicità