L’inutilità di sconfiggere l’acne prima di una pandemia
Un testo uscito su Domani il 30 ottobre 2020
È molto bello dimostrare meno anni di quelli che si hanno, a meno che la ragione non sia l’acne tardiva. Non che qualcuno mi abbia scambiata per una preadolescente perché avevo i brufoli a 30 anni, ma l’idea che non fossi in grado di badare alla mia faccia come una rispettabile adulta mi ringiovaniva. In realtà sapevo bene cosa fare con la mia faccia, lo dimostravano le centinaia di euro che spendevo in creme, sieri e attrezzature varie — spazzole rotanti, pietre gua sha, oggetti rosa vibranti in silicone fatti per detergere i punti neri che non vanno usati in altre zone sensibili del corpo, a meno che non le si vogliano estremamente pulite. Lo sapeva anche la mia cronologia YouTube e Instagram imbottita di video di una celebre dermatologa americana, Sandra Lee, nota come Dr. Pimple Popper.
Nel 2010 Lee iniziò a pubblicare video in cui estirpa comedoni, grani di miglio, cisti, lipomi. Sono delle strettissime soggettive sulla mano della dottoressa che con un estrattore inizia ad accarezzare un naso facendo sbucare serpentelli di sebo, oppure con un bisturi fa un piccolo taglio su un braccio per far uscire una enorme palla di liquido giallognolo. Qualche lettore avrà probabilmente allontanato gli occhi da queste righe e mimato il suono di un conato (che non ha realmente avuto, siamo tutti più maturi di così), ma posso capire il disgusto. Una parte consistente di persone che sentono parlare di questi video si fa una domanda molto semplice: “Come si fa a guardare certe cose?”. La risposta è altrettanto semplice: le si guarda con gli occhi proiettati al futuro. Occhi positivi. Oserei un occhi riformisti. Quello che per qualcuno è il disgusto della pelle ferita per far fuoriuscire essudati vari, per noi fedeli spettatori di questi video (siamo milioni) è un passaggio risolutivo da una situazione caotica e fuori controllo, un viaggio dell’eroe solcando un mare di pus verso la promessa di una pelle come era prima, senza più problemi. O forse quelle che ho scritto sono tutte idiozie e mi piacciono le cose viscide — se fossimo su un blog all’inizio del 2000 aggiungerei “Spiegherebbe molti dei miei ex fidanzati” come invito alla risata per le amiche da casa, invece siamo su un quotidiano durante una pandemia e i miei ex si lavavano, quindi non c’è niente da ridere.
Quando scelsi di passare alla libera professione (perché mi avevano licenziato, mica per spirito di iniziativa) la mia normale condizione dermatologica passò da un herpes labiale cadenzata dall’uscita dei mensili a cui lavoravo ad alcune pustole causate da non so bene cosa. Non erano brufoli come li avevo visti fino a quel momento, sembravano molto più arrabbiati. Ne capitava uno sul mento e quando andava via, ne arrivava uno sulla guancia. Io trovavo una buona scusa per comprare nuovi prodotti e fondotinta più coprenti, e tutto finiva lì. Le cose cambiarono quando la libera professione si rivoltò contro di me: in un momento in cui non trovavo lavori e quelli che avevo fatto non mi venivano pagati, trovai un porto sicuro nei video di Dr. Pimple Popper. Li guardavo prima di dormire o sui mezzi pubblici per avere cinque minuti in cui non pensare al conto che si prosciugava e agli avvocati del lavoro che avrei dovuto chiamate. Li guardavo come se in quegli enormi lipomi ci fossero i miei pagamenti arretrati. E più ne guardavo, più l’algoritmo mi infilava follicoli infiammati ovunque. Radicalizzata da quella continua esposizione, cominciai a fare quello che non andrebbe mai fatto: mi schiacciai i brufoli. Da quel momento qualche piccolo esemplare facilmente mimetizzabile si trasformò in una costellazione di punti bianchi e crosticine impossibili da coprire. Quando nessuna persona che conoscessi riusciva più a guardarmi negli occhi ma solo nei brufoli, mi affidai a una dermatologa in carne e ossa che mi elencò almeno quattro ragioni che potevano spiegare la mia acne e tre possibili cure che non avevano nessun collegamento l’una con l’altra, con il procedere a tentoni della sua specializzazione. Solo su una cosa fu perentoria: non dovevo toccarmi la faccia, mai. Niente appoggiare la testa sulla mano quando ero annoiata, niente grattarmi il mento durante una riflessione, niente sbattermi il palmo sulla fronte quando qualcuno diceva un’idiozia. Sembrava una minuzia, ma ha funzionato. In qualche mese l’acne è regredita perché ho smesso di toccarmi la faccia. E perché ho preso tre confezioni di un antibiotico grande quanto il proiettile di un fucile, ma non è questo il punto.
Il punto è che quando voi avete smesso di toccarvi la faccia a febbraio 2020, io già non lo facevo da sette mesi. Mi prendevano per cretina ogni volta che per automatismo mi mettevo una mano sul viso e la toglievo immediatamente, e poi hanno iniziato a farlo tutti. La stessa roba è successa con lo zainetto della marca svedese, prima tutti “Ma che ci fai in giro con lo zainetto da boyscout? Ma poi che nome ha?”, sei mesi dopo ce l’aveva mezza Milano.
A luglio ho festeggiato un anno senza acne. Non l’ha notato nessuno perché avevo la mascherina. Poi a settembre l’acne è tornata, a causa alla mascherina. Non è proprio acne, negli Stati Uniti verso aprile hanno iniziato a chiamare i segni e le infezioni della pelle causate dall’uso prolungato della mascherina con il termine “maskne” — gli americani non sapranno gestire le pandemie, ma sui nomi composti sono formidabili. Sotto le mascherine che indossiamo a lavoro le nostre pelli sono lucide, irregolari, cotte. Ci siamo contemporaneamente liberati dalla schiavitù del fondotinta, che finiva spalmato sul tessuto non tessuto o divorato dai nostri pori dilatati. La mascherina ci protegge e protegge gli altri dalle nostre facce imbruttite. Siamo unti, frustrati dai divieti e rancorosi verso l’autorità. E dobbiamo essere a casa entro le 22. Non siamo mai sembrati così giovani.